ioGero e vi racconto!

Una di quelle storie che soltanto i vecchi sanno raccontare

ioGero... e vi racconto

Forse, se avrò la fortuna, un giorno diventerò vecchio e allora potrò raccontarla.
Perché questa è una di quelle cose che poi, quando diventi vecchio, la racconti in continuazione ai più piccoli e loro restano sempre a bocca aperta, tutte le volte che gliela racconti.
Dunque.. Che era?
Era il 2019… no.
Era il 2020.
Era l’inizio del 2020. Me lo ricordo perché era appena finito Sanremo.
Io ero già a Milano da qualche anno. All’epoca c’era questa cosa che si andava tutti a Milano.
Non era come adesso che tutto il mondo è uguale.
Era inverno ma non faceva più freddo perché c’era il surriscaldamento globale e il freddo si era rotto.
Mica come ora, che siete riusciti a sistemare la questione e avete rimesso a posto le stagioni.
All’epoca non si capiva più niente.
Tutto l’anno faceva caldo e in estate caldissimo.
Insomma come fu e come non fu, subito dopo che finì Sanremo arrivò l’epidemia.
Che forse però, ogni volta mi confondo, era pandemia.
Non mi ricordo bene se era epidemia o pandemia, fatto sta che era una di quelle cose che all’improvviso cominciò a diffondersi, che sembrava un virus.
Ecco, un virus. Era proprio un virus. Come quelli dei film.
Corona si chiamava.
Che uno nel 2019… no no era il 2020, me lo ricordo perché era appena finito Sanremo, insomma uno nel 2020 mica stava più attento ai virus. I Virus erano una cosa ormai risolta, erano un argomento in bianco e nero già all’epoca. Si studiavano sui libri, quando si studiavano le malattie come la peste, la lebbra, l’aids. Cose che ormai davamo per passate.
Ma all’improvviso, dopo che finì Sanremo, arrivò il Corona.
Nessuno se lo seppe spiegare come fece ad arrivare.
Secondo me fu perché dal nome uno non se lo aspetta che si tratta di un virus. Se tu arrivi e ti chiami Peste è ovvio che ti fermano e non ti lasciano passare.
Se tu ti chiami Lebbra lo sanno tutti che non ti devono fare entrare.
Ma se tu ti chiami Corona allora succede che ti lasciano passare tranquillamente. A meno che tu non eri Corona il fotografo/paparazzo ed era un casino. Se sto virus si fosse chiamato ad esempio Scanto, oppure Akkura, subito lo avrebbero riconosciuto. Invece col fatto che si chiamava Corona ci fregò e neanche il tempo che Amadeus annunciò il vincitore di Sanremo, che immediatamente arrivò in Italia. Soprattutto vicino Milano, che io ci abitavo già all’epoca e faceva impressione vedere rallentare Milano. Era strano vedere Milano impaurita.
Una paura che piano piano si cominciò a diffondere come si stava diffondendo il virus. Prima cinque, poi dieci, e poi assai assai. Nella zona di Milano e poi in tutta Italia. Succedevano le cose che sino a quel momento le avevi lette soltanto sui libri: le scuole che chiudevano, la gente che si spaventava e andava al supermercato a comprare le cose che gli servivano e, soprattutto, le cose che non gli servivano. Non si poteva più andare al cinema e neanche al teatro. Tutto per colpa del Corona. Non si potevano fare le feste e si poteva stare vicini ma non troppo. Un metro l’uno dall’altro. Sessanta centimetri.
Che possono sembrare pochi, ma quando sei obbligato a non oltrepassare quella distanza minima dei sessanta centimetri ti rendi conto di quanti siano realmente. Soprattutto quando vorresti abbracciare, stringere, baciare o amare una persona.
Tutto il Paese, in preda alla paura, non sapeva cosa fare e quindi parlava. Forse per esorcizzare la paura.
Non si faceva altro che parlare.
Si parlò così tanto che arrivati ad un certo punto finirono le parole.
Per tutti.
A quel punto eravamo finalmente tutti uguali, perché nessuno avrebbe potuto dire più l’ultima parola.
Finite le vocali, le consonanti e i numeri, da sotto il silenzio, cominciò a muoversi qualcosa.
Era quella sincera voglia di ricominciare, con pazienza, forza e intelligenza.
Tutte cose che al Corona mettevano paura e fu lui che cominciò a rallentare questa volta, sino a fermarsi del tutto.
Milano e le altre città d’Italia pian piano ripartivano, tutte con la stessa voglia e alla stessa velocità. Questa volta nessuna città restava indietro. C’era un’Italia unita che voleva vincere. Come nel 2006, a Berlino.
Poi ovviamente tornarono anche le parole, quelle utili e quelle inutili.
Quelle che si scambiano al bar, quando si commentano le partite di calcio o il vincitore di Sanremo.
A proposito di Sanremo.
Quell’anno il Festival fu riorganizzato in autunno.
Perché, poverino, il vincitore di Febbraio dovette annullare tutti i festeggiamenti e tutti i concerti.
Aveva vinto con una bellissima canzone che non poteva però cantare da nessuna parte.
Se non a casa sua e con la mascherina addosso.
Lui si chiamava Diodato e aveva vinto con la canzone “Fai Rumore” il Festival di Sanremo 2020.
O 2019?
No no… 2020 era.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *